Nonostante possa sembrare strano, la cultura, termine che fa rabbrividire molti cittadini italiani, include la partecipazione attiva alla vita del proprio Paese in senso ampio e, diciamocela tutta, politico. Oggi siamo quasi disabituati a vivere il concetto di democrazia, e cittadinanza, con l’interesse che ha contraddistinto il secolo scorso. I nostri padri, ma ancor più i nostri nonni, vivevano di lavoro, religione, sport e politica, e le piazze, non quelle consumistiche dei megastore e dei centri commerciali spuntati in ogni dove, erano un punto di incontro, e scontro, tra diverse idee della “cosa pubblica”. È vero, oggi la civiltà digitale ha spostato la discussione sul web, forse aprendo a confronti più larghi rispetto a ciò che accadeva nelle strade delle nostre città, ma a che prezzo? Confusione, disinformazione, plagio delle idee altrui attraverso notizie false e tanto altro, in un caos che sta generando, in diversi casi, più danno che partecipazione e conoscenza. Ad ogni modo la politica, la partecipazione, le discussioni, quando strutturate in modo costruttivo, sono a pieno titolo cultura di un popolo, e per questo motivo oggi vorrei sottoporre alla vostra attenzione un dubbio che mi assale da molto tempo sulla onerosa questione federalista partendo dalle pensioni e, di conseguenza, da ciò che l’Istat ha appena dichiarato ieri. Il nostro istituto nazionale di statistica, cui ci si riferisce per organizzare diversi settori della nostra vita reale, il più noto dei quali è quel famoso “carrello della spesa” dal quale si trae poi l’indice di inflazione, ha comunicato che la vita media degli italiani si è ulteriormente allungata. Benissimo diremmo noi, siamo contentissimi di sapere che la nostra salute è migliorata, che le cure sanitarie riescono a renderci più longevi, ma, a prescindere dalle enormi differenze regionali di cui parleremo tra poco, siamo davvero sicuri che questi dati siano correttamente usati dalla macchina pubblica? Assodato che l’Istat è un grande istituto in cui operano professionisti della statistica, per cui non si mettono in dubbio i dati scientifici da esso pubblicati, resta il terribile dubbio che di questi “numeri” vengano presi solo quelli più superficiali, quelli che consentono alla politica, a chi ci amministra, di portare il Paese non dove dovrebbe andare ma, forse, dove qualcuno vuole che vada. I dati in questione, tratti dall’Indice di mortalità della popolazione residente, hanno evidenziato che il 2016 è stato l’anno più favorevole per i cittadini italiani con 10,1 persone morte ogni 1000 abitanti, contro un indice dell’anno precedente che faceva registrare 10,7 individui deceduti ogni 1000 residenti. Ad oggi, quindi, la speranza di vita si attesta a ben 82,8 anni di media con le donne, come al solito (beate loro!), in vantaggio sugli uomini con 85 anni contro 80,6. Fin qui tutto sembra oro colato, ma scendendo nel dettaglio qualcosa non quadra, e ci fa pensare che, forse, il famoso federalismo fiscale tanto spinto dai leghisti veneti dovremmo invece applicarlo in altri campi. I dati parlano, tragicamente per il sud, di un “tasso standardizzato di mortalità” in Campania di ben 9,6 morti ogni 1000 abitanti contro i 7,5 deceduti in Trentino, ed un indice per regioni che ci vede all’ultimo posto insieme alla Sicilia che è penultima con un valore di 9 morti ogni 1000 residenti. A questo punto, oltre alla normale osservazione che son certo tutti facciamo continuamente, in relazione ad una statistica che pare non tener conto delle differenze di degrado fisico rispetto ai differenti tipi di lavoro dei cittadini (non ci si può aspettare la stessa aspettativa di vita tra chi lavora in miniera e chi, ad esempio, fa un lavoro di concetto sicuramente meno usurante), mi viene subito da pensare come mai una regione così massacrata anche dalla mortalità più alta del Paese debba rispondere ugualmente alla stessa norma sul pensionamento. Come mai un trentino, con grande gioia per i fratelli di quella splendida regione, può andare in pensione a 67 anni e godersi meritatamente tanti anni di riposo prima (speriamo sempre il più tardi possibile) di volare in cielo, ed un campano deve pagare ugualmente tasse e contributi potendo aspettarsi il meritato riposo per un periodo molto più ridotto rispetto agli altri italiani. Qualcuno ovviamente ora obietterà che nella nostra regione bisogna risolvere la questione inquinamento, la questione della sanità pubblica, etc., ma nel frattempo resta attiva un’ulteriore discriminazione profonda tra territori italiani. Ora, facendo un po’ i rassegnati, passino pure le altre questioni tipo trasporto pubblico, infrastrutture mancanti, etc., ma sull’aspettativa di vita e la pensione no! Forse ora si esagera davvero e stiamo “culturalmente” accettando, con conferme che vengono dalle istituzioni, che in Campania bisogna morire prima e bisogna pure andare in pensione dopo. Allora la questione della “Fornero”, abbiate pazienza, va risolta non solo per ciò che riguarda la differenziazione delle mansioni svolte durante la vita lavorativa, per cui chi fa un lavoro comodo ha giustamente la possibilità di andare in pensione un po’ (sottolineo un po’) più tardi, ma anche e soprattutto per ciò che riguarda la differenza territoriale che, guarda caso, penalizza davvero troppo le regioni di quel sud che viene sempre visto come un mostro vorace che ruba al resto del Paese. Cari amici federalisti, ora non mi verrete a dire che il federalismo pensionistico vi da fastidio, perché fino a prova contraria siete voi, considerando i contributi ugualmente versati dai lavoratori italiani per andare in pensione, che state “togliendo a noi” campando molto di più e facendovi pagare più a lungo! Ovviamente questa frase è una provocazione per far capire che, oltre al serissimo problema dell’aspettativa di vita differente, la questione fiscale, del federalismo, del trattenersi i presunti 9/10 delle proprie entrate regionali, se permettete è proprio una bella storiella per ribadire, con forme differenti, che a voi l’Unità d’Italia continua a non scendere, dimenticando ampiamente, però, che il sud è stato vittima due volte di questa forzatura, e forse invece di accusarci sempre, potreste finalmente capire che quella necessaria unificazione dei tanti inutili staterelli ottocenteschi è stata pagata a caro prezzo da tanti italiani, e, se permettete, direi che ancora una volta chi ci ha rimesso di più è stata proprio la Campania, la terra dei Borbone, e la regione che ha avuto la capitale più importante della nostra espressione geografica per tantissimi anni. Abbiate pazienza ma sarebbe utile essere uniti e risolvere i problemi, piuttosto che continuare a giocare inutilmente con le paroline della Costituzione per cercare modi più morbidi di andarsene per i fatti propri. Se non vuoi mantenere qualcuno sulle tue spalle, per logica, gli insegni a cacciare, a coltivare, a costruirsi una casa, magari a collaborare per una causa comune. Non è chiudendosi in un piccolo territorio che si risolvono i problemi, soprattutto in un mondo che sembra sempre più avviarsi a nuove questioni belliche. Aprite gli occhi, il nord Italia è piuttosto vicino a due colossi che domani potrebbero svegliarsi con pessime intenzioni, e soprattutto il gigante cinese, che da molti studiosi è già considerato il futuro conquistatore di mezzo mondo, inghiottirebbe le realtà regionali in modo ancora più semplice di quanto si possa oggi prevedere. Siete davvero sicuri, e questo lo dico anche ai cari catalani tanto orgogliosi da volersene andare dalla Spagna, che il passato non possa tornare? Ah la storia, se finalmente qualcuno tornasse a farla studiare ai giovani e, magari, ai nostri politici!
2017-10-26
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