La preziosa arte italiana, stratificata sui nostri territori a formare un unicum di bellezza e storia, fu sempre sotto attacco durante la WW2. Tra le tante ferite, anche alcuni miracolosi recuperi…
Il nostro Bel Paese, unicum mondiale per concentrazione di storia, architettura e paesaggi, sfoggia ogni giorno ben 58 siti Patrimonio Unesco, un tesoro globale già ampiamente riconosciuto durante le vicissitudini belliche del “Secolo breve“, le sue due disumane guerre mondiali ed i successivi stravolgimenti della Guerra fredda. Oggi, proprio nel momento in cui viviamo un assurdo anniversario, quello del primo anno di guerra in Ucraina, il tema della distruzione della cultura dei popoli, che accompagna sempre quello della perdita di vite umane innocenti, ritorna prepotentemente in auge sul palcoscenico globalizzato del nuovo millennio.
I bombardamenti dei britannici prima, dei più potenti americani poi, come pure i sanguinosi scontri sul campo di un’Italia invasa dal luglio del ’43 partendo dalla Sicilia, hanno lasciato profonde ferite sui nostri territori, in molti casi generando perdite irrecuperabili e, al contempo, in contrapposizione, miracolosi recuperi.
Numerosi gli episodi degni delle migliori pellicole hollywoodiane, tra cui oltre alle distruzioni spiccano i rocamboleschi furti, come quello di alcune tele conservate a Montecassino, che ci spingono a ricordare e dare credito anche ai tanti eccezionali salvataggi di architetture e opere d’arte avvenuti sul finire della guerra e all’avvio della ricostruzione. Una delle tante importanti vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro patrimonio è sicuramente legata al famoso Tabernacolo del canto del Mercatale di Filippino Lippi, stupendo affresco originariamente posizionato in uno degli angoli della grande Piazza Mercatale di Prato, letteralmente sbriciolato dai bombardamenti che nel marzo del ’44 interessarono l’area cittadina e quella della vicina Firenze, main target della strategia di penetrazione degli Alleati in centro Italia.
Opera del 1498, fu realizzata dal grande pittore Filippino Lippi, figlio di una “storia” altrettanto particolare, nato a Prato dall’impropria unione tra Filippo Lippi e Lucrezia Buti, quest’ultima monaca del convento delle clarisse di Santa Margherita, struttura che sorgeva esattamente di fronte al luogo in cui fu poi posizionato il Tabernacolo con l’immagine della Madonna. Questa edicola, quindi, si lega fortemente alle vicende private del padre Filippo, ad uno dei più noti scandali cittadini e ad un periodo sociopolitico in cui molte persone erano vittime della cosiddetta “monacazione forzata“, quindi l’inserimento in ordini ecclesiastici per problemi di povertà, pratica sociale ben presto diventata pure metodo efficace per allargare i ranghi della Chiesa con talenti di grande respiro come, per l’appunto, il Lippi padre. Innamoratosi di Lucrezia, anch’essa vittima di monacazione forzata, la portò con sé in occasione della processione della Sacra Cintola, reliquia celebrata ogni anno nella città toscana, ottenendo successivamente la dispensa dai voti grazie al diretto interessamento di Cosimo de’ Medici, più conosciuto come il Vecchio, per spegnere la lunga onda di indignazione mediatica generata da quella che in altri luoghi d’Italia ancora oggi si chiama “fuitina”.
Bombardata a partire dal 2 settembre del ’43, la città di Prato fu attenzionata dagli angloamericani per allontanare i nazisti da una fondamentale direttrice ferroviaria a nord del più grande centro urbano della regione, Firenze, ma anche per limitare il potenziale industriale della zona, in buona parte a lavoro per i tedeschi, e arrecar danno ove non fosse stato possibile completare le missioni di strike areo sull’area fiorentina, secondo la consolidata prassi del secondary target. Fu soprattutto durante i primi mesi del ’44 che la città, purtroppo, fu centrata e massacrata dalle bombe e, come accaduto in tutto il resto delle nostre antiche e stratificate città d’arte, i beni culturali pagarono il maggior pegno.
Se la stazione ferroviaria ed i suoi snodi restavano ovvio main target degli attacchi aerei, le aquile d’acciaio sfregiarono con i propri artigli anche l’Istituto religioso di San Giuseppe della Congregazione delle Suore Carmelitane di Santa Teresa di Firenze, lo stadio comunale, la Pieve romanica di Filettole, completamente distrutta e poi ricostruita nel 1956 con le stesse sembianze e una parte di materiali recuperati, la chiesa di San Bartolomeo in via del Carmine, proprio affacciata sulla massacrata Piazza Mercatale e ricostruita quasi completamente nel 1958, nonché la trecentesca chiesa di Sant’Agostino centrata sfortunatamente nell’abside.
Ma, tornando al Tabernacolo, le bombe del marzo ’44 sbriciolarono anche il palazzo su cui era stata ricavata la nicchia che la conteneva, disintegrando in tanti pezzi la Madonna col Bambino, accompagnata sul lato sinistro da Sant’Antonio Abate e Santa Margherita, oltre che da Santo Stefano e Santa Caterina d’Alessandria sul laterale destro. Ma i miracoli a volte si nascondono tra le mani e nelle intenzioni di donne e uomini che non hanno voglia di arrendersi al fato, all’irreparabile.
Pur pesantemente compromessa, Leonetto Tintori, poliedrico artista pratese e restauratore di fama internazionale, con pazienza certosina recuperò i pezzi di quell’opera, li conservò magistralmente in vasetti di vetro riempiti di terriccio in grado di proteggerli e ricompose il Tabernacolo nell’arco di due anni. Amore per la propria città, per la pace, per i simboli di umana e civile convivenza. Tintori, al pari di altri “santi laici” della Seconda guerra mondiale, ricordiamo ad esempio Amedeo Maiuri e Pasquale Rotondi, come pure il nostro grande 007 Rodolfo Siviero, padri del salvataggio di tantissimi beni culturali italiani durante il conflitto, riuscì nell’impresa di recuperare il recuperabile, di non disperdere la nostra identità nonostante la follia di altri uomini che, invece, avevano solo voglia di distruggere, soggiogare, insanguinare gli esseri umani di mezza Europa.
Oggi il Tabernacolo ricostruito è conservato al Museo Civico di Prato, fa bella mostra di sé, seppur ferito, per ricordarci, al di là del solo messaggio artistico, cosa significhi essere uomini contro.
La guerra non è mai la soluzione. La guerra è la negazione della nostra stessa esistenza. Mi piacerebbe tanto vivere in un mondo che finalmente ha imparato la più importante lezione della nostra comune esistenza, ma questa speranza però può essere solo figlia dell’impegno di tutti. Proviamoci…se non per noi, per i nostri figli.
Author Giuseppe Russo – Tutti i diritti riservati © febbraio 2023 Riproduzione vietata
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