«Mille cause riunite hanno concorso a fare dell’Italia una specie di museo generale […] questo paese è il solo che possa godere di questo specifico privilegio. […] Il vero museo è Roma […], si compone è vero di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, […] ma si compone altresì di luoghi, di paesaggi, di montagne, di strade, di vie antiche […] di memorie, di tradizioni locali[…] e di raffronti che non possono farsi che sul posto»
(Antoine C. Quatremère de Quincy, archeologo, politico, filosofo e critico d’arte francese)
La grandezza delle espressioni umane, come anche certificato dai 58 beni culturali italiani attualmente tutelati dall’UNESCO, è stata per secoli principalmente rappresentata dall’arte della Caput Mundi, di quella Roma passata dalle espressioni pagane, di un fiorente impero quasi globalizzato, al simbolismo religioso del cristianesimo di una potenza oramai in disgregazione. Un corpus immenso di sculture, architetture, pitture e variegate espressioni artistiche stratificatesi nei millenni, davvero difficile da quantificare, che l’Italia conserva e scopre costantemente nelle sue più profonde viscere. Un annoso problema, quindi, quello della tutela dei nostri simboli, della nostra storia, di ciò che definiamo ufficialmente “beni culturali“, una querelle di delicatissima soluzione dibattuta ormai da secoli.
Un problema, però, più concretamente sentito a partire dallo spartiacque storico delle spoliazioni napoleoniche, periodo durante il quale l’Italia subì la beffarda sottrazione di molti inestimabili tesori. Quello il momentum, quindi, in cui vi fu la più seria presa di coscienza di quanto fossero importanti i simboli della cultura nell’egocentrico continente europeo, ponendo finalmente sui tavoli della politica internazionale la questione della tutela, del recupero e perfino dell’inestimabile valenza economica – tanto che oggi la si inserisce nel PiL – dei patrimoni culturali pubblici e privati. Difficile dimenticare che i cugini francesi, giusto per rinfrescarci la memoria, portarono via capolavori del Mantegna (Madonna della Vittoria – oggi al Louvre), del Veronese (le Tentazioni di Sant’Antonio Abate), di Rubens (la Trasfigurazione), di Raffaello (l’Estasi di Santa Cecilia), di Giotto (le Stimmate di San Francesco – oggi al Louvre), di Cimabue (la Maestà – oggi al Louvre), come pure i cavalli in bronzo di S.Marco a Venezia, ove tra l’altro i francesi sequestrarono il tesoro della basilica per fonderlo, facendo lo stesso con lo storico e famoso Bucintoro. Il Buzin d’oro, una grossa e magnificente imbarcazione, simbolo dell’annuale e sentita festa dello “sposalizio del mare” dei veneziani, fu smantellato per ricavarne l’oro dalle numerose decorazioni, ma anche per distruggere un simbolo culturale del nemico, atto ideologico che a partire dai due conflitti mondiali del ‘900 avrebbe assunto sostanzialmente l’odioso carattere di regolare attività di guerra.
Non solo il nord subì l’onta delle spoliazioni. Le truppe francesi, ad esempio, entrarono a Roma nel febbraio del 1798 e spedirono con rapidità a Parigi molte tra le più importanti sculture dei musei capitolini come il Laocoonte o l’Apollo del Belvedere, oltre alle collezioni private del cardinale Albani e della facoltosa famiglia papalina Braschi. Anche il sud si ritrovò attenzionato dalle voglie dei rivoluzionari, tanto che a fine febbraio del 1799 il generale Jean Étienne Championnet, tra i fautori della Repubblica Napolitana, scriveva una missiva con grande entusiasmo al Direttorio di Parigi: «…vi annuncio con piacere, che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute. Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius in marmo; la Venere Callipigia non andrà sola a Parigi: abbiamo trovato alla Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola e Marco Aurelio, un bel Mercurio in bronzo e busti antichi […] Il convoglio partirà fra pochi giorni…».
Incredibilmente, la rivoluzione aveva generato una cinica legislazione mai pensata prima. I saccheggi d’arte che i soldati di Napoleone eseguirono in Italia erano legittimati giuridicamente da alcune clausole che la Francia aveva imposto agli sconfitti. Sia l’Armistizio di Bologna, sia il noto Trattato di Tolentino – siglato nelle Marche – seguivano una dottrina tutta nuova nei conflitti bellici, quella della richiesta di indennizzi di guerra in opere d’arte. Introdotta poco tempo prima dall’Armistizio di Cherasco a Cuneo, che siglava la fine delle ostilità tra i transalpini e il Regno di Sardegna dei Savoia, inserendo nei termini della pace la cessione come risarcimento di oltre 100 opere d’arte, fu definita da Napoleone in persona una “sua bizzarra richiesta“, nata dal desiderio di «…esigere un bel quadro di Gerrit Dou, […] di proprietà del re di Sardegna e ritenuto capolavoro della scuola fiamminga…». Vi ricorda qualcosa? A me i pruriti artistici e le voglie improprie di Hitler e soprattutto Goering negli anni della Seconda guerra mondiale!
Fu insomma lo tsunami napoleonico, ma soprattutto la sua dissoluzione, dovuta alla restaurazione del precedente status quo, che così permise al Canova il recupero della metà delle opere trafugate, a spingere definitivamente gli Stati italiani alla creazione di uno scudo legislativo per i beni culturali, ancor prima dell’ormai incombente unificazione.
Insomma, diretta conseguenza della sconfitta di Napoleone fu la nascita del famosissimo Editto Pacca su scavi archeologici e conservazione dei monumenti, benedetto dal pontificato di Papa Pio VII e studiato dal cardinale beneventano Bartolomeo Pacca, prosegretario dello Stato Vaticano e attentissimo legislatore pontificio. Il cardinale, teso alla massima tutela possibile dei patrimoni vaticani, estesi lungo le aree di Bologna, Forlì, Ravenna, Ferrara, Marche, Umbria e del Lazio, regolamentò le esportazioni ed il restauro delle opere d’arte e di tutte le preziose aree archeologiche, istituendo il moderno principio della “catalogazione dei beni“, come pure fondando diversi organi di controllo, estendendo tale normativa perfino a diverse collezioni private. La lungimiranza di questo editto fu subito universalmente riconosciuta, tanto da diventare via via la norma riferimento per tutti gli Stati della penisola, cui più o meno si ispirarono ad esempio le amministrazioni borboniche, quelle toscane e le lombarde, proprio mentre scorreva il conto alla rovescia per la nascita del Regno d’Italia.
Con la nascita dello Stato unitario, in Italia il vento della tutela del patrimonio culturale soffiò via via sempre più forte, anche sulla spinta delle tragedie della Prima guerra mondiale e del più cruento secondo conflitto, prima del quale, sulla base dell’Editto Pacca, il ministro Giuseppe Bottai creò il suo capolavoro, la riforma del 1939 con due speciali leggi «per la tutela delle cose di interesse artistico e storico» e «per la tutela delle bellezze paesistiche». Poco prima dei bombardamenti angloamericani, delle battaglie d’artiglieria, delle minature dei tedeschi in ritirata, l’Italia si dotava così di un formidabile strumento per proteggere le proprie bellezze che, nonostante le sopraggiunte modernizzazioni, ancora oggi tutela i nostri beni culturali. Ma di questa storia ne parleremo prossimamente. Buona cultura a tutti!
Author Giuseppe Russo – Tutti i diritti riservati © ottobre 2022 Riproduzione vietata
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