I ponti, da quelli famosissimi in pietra dell’Impero Romano alle più moderne strutture in acciaio d’oltreoceano, hanno sempre creato fondamentali collegamenti culturali e commerciali tra città, contrade, intere nazioni. Durante le guerre, però, essi hanno rappresentato e ancora rappresentano bellezze da proteggere ma anche strade da interrompere. Durante la Seconda guerra mondiale in Italia molti ponti furono protagonisti di distruzioni, salvataggi dell’ultimo minuto e recuperi postumi.
I “ponti“, partendo da forme preistoriche, instabili, talvolta addirittura azzardate, hanno da sempre accompagnato la storia degli esseri umani e delle loro affascinanti peregrinazioni geografiche, sostanzialmente forgiando e plasmando l’intera civiltà mondiale. Vero e proprio monumento all’ingegno dei Sapiens, che nel neolitico già osavano comporre piccoli passaggi in pietra sopra i corsi d’acqua, tali strutture hanno inizialmente assunto una semplice caratterizzazione costruttiva, in genere a fune vegetale e legno, secondo tecniche molto usate nell’area asiatica, ad esempio tra le popolazioni dell’Himalaya, ma anche in Sud America, nei territori degli Incas, come pure nell’Africa delle sorprendenti tribù equatoriali. Indubbiamente la volontà di superare un ostacolo naturale, di facilitare gli scambi commerciali, di conoscere il mondo circostante, di proteggersi o perfino aggredire altre realtà geopolitiche, ha poi spinto gli umani alla ricerca di soluzioni via via sempre più elaborate, sebbene siano stati i Romani a sintetizzare le migliori tecniche ingegneristiche conosciute fino a quel momento, dando vera anima al concetto stesso di ponte. Capaci di unire il preciso uso delle corde, del legno e delle pietre, configurazione di guerra poi mutata nelle più efficaci strutture civilistiche completamente in muratura, di cui ben si ricordano anche le derivazioni monumentali degli altissimi e funzionali acquedotti, i nostri antenati hanno disseminato il Bel Paese, da nord a sud, di veri e propri beni culturali che nel tempo sono diventati perfino bersagli privilegiati delle follie umane: le guerre.
Nel leggere degli scontri bellici del ‘900, sebbene si possa ritrovare tale aspetto anche nelle attuali crisi geopolitiche come quella Russa-Ucraina, si nota agevolmente che i ponti sono stati uno dei più frequenti obiettivi di bombardieri e sabotatori sul terreno. Episodi come lo strike di Capua del 9 settembre ’43, quello dei feroci e ripetuti attacchi che nello stesso periodo resero Benevento una distesa di macerie, come pure gli abbattimenti prima da bombardamento aereo e poi dalle minature dei tedeschi in ritirata a Pisa e Firenze, sono impressi a fuoco nella memoria di numerosissime città italiane.
La storia della caduta o del salvataggio dei nostri ponti porta con sé, quindi, veri e propri miti, atti di eroismo e perfino caustiche considerazioni tra vinti e vincitori. Simbolico proprio il caso di Capua. Nel tentativo di “tagliare” ritirata e rifornimenti al nemico tedesco, i bombardieri degli Alleati arrivarono sulla città il giorno dopo l’annuncio del cosiddetto “armistizio dell’8 settembre“, con gente in strada e nelle chiese per l’errata convinzione che finalmente la guerra fosse finita, per distruggere le vie di comunicazione tra cui l’importantissimo e storico Ponte romano, bellissima struttura dell’epoca di Adriano (76 – 138 d.C.). Rimaneggiato nei secoli, soprattutto da Federico II, che fece realizzare una porta e due torri tra il 1234 ed il 1240, fu solo sfiorato e ferito dall’attacco aereo, mentre fu poi fatto beffardamente crollare dagli stessi nazisti in ritirata, per rallentare l’inseguimento delle truppe americane sbarcate a Salerno.
Stessa fine per un’altra affascinante struttura nelle Marche, ad Ascoli Piceno, quella del Ponte di Cecco che si collega al bellissimo Forte Malatesta. Il ponte fu minato e fatto saltare dai tedeschi nel giugno del ’44, tra l’altro insieme al Ponte Maggiore, altra architettura storica della città marchigiana costruita per far parte del lungo tracciato della via Salaria, antica arteria consolare romana. Dei due, il primo fu fedelmente ricostruito recuperando tutti i materiali caduti nel torrente a causa della tremenda esplosione.
Difficile dimenticare la tragedia di Firenze, dove sempre i tedeschi in ritirata verso nord, nella notte del 3 agosto ’44, decisero di distruggere tutti i ponti tranne Ponte Vecchio, vero e proprio luogo di culto intoccabile anche per gerarchi e ufficiali nazisti, risparmiato quindi per la sua eccezionale valenza culturale. La città, tagliata in due dall’Arno, che aveva già patito per i bombardamenti alleati, ottenne quindi il colpo di grazia da terra! Certo, nonostante l’imprecisione, spesso coperta da report troppo ottimistici e da una propaganda troppo mitizzante i mezzi statunitensi, gli stormi di B24 e B17 americani fecero comunque danni in giro per lo Stivale. Napoli, città più bombardata in Italia durante la guerra, rappresenta uno degli esempi più vividi di feroce e inutile distruzione dei nostri beni culturali, anche di quelli con archi e tiranti! Dal cielo, infatti, arrivarono gli ordigni che annientarono il Ponte della Maddalena, uno degli antichi ponti del capoluogo campano, situato sulla via che conduce alla Reggia di Portici, attualmente non più riconoscibile tranne che per alcuni resti, tra cui le edicole sacre di San Gennaro e di San Giovanni Nepomuceno.
In Umbria, invece, si può citare la distruzione del Ponte sul Tevere della nota frazione Ponte Valleceppi della città di Perugia, una struttura già presente in epoca romana forse distrutta da una piena del fiume, poi ricostruita in epoca medievale, profondamente danneggiata dagli aerei nemici nel giugno del ’44 e poi “finita” dalle già citate minature tedesche per coprire il ritiro delle truppe.
Ma uno dei più particolari simboli di questa guerra nella guerra, quella ai beni culturali e agli storici ponti italiani, è l’episodio di Savignano sul Rubicone, splendida cittadina emiliana a metà strada tra Cesena e Rimini. Dopo le pesanti distruzioni operate dai bombardieri angloamericani in quell’area e sulle due citate città, furono ancora una volta i tedeschi a prendere l’iniziativa distruggendo a terra l’antichissimo Ponte Romano sul fiume Rubicone, spesso associato erroneamente al celebre attraversamento del fiume compiuto dalle legioni di Giulio Cesare. Probabilmente costruito in epoca augustea, quindi successivamente al notorio passaggio della Legio Gemina, fu fatto saltare tra il 28 ed il 29 settembre del 1944, per poi essere ricostruito negli anni ’60 con tutti i materiali originali recuperati nell’alveo del fiume. Questo episodio, però, si colloca in un altro particolare filone storico, cioè quello del recupero effettuato con criteri definiti discutibili. Come avvenuto per la Basilica di Santa Chiara a Napoli, distrutta dai bombardamenti e recuperata nella sua antichissima veste trecentesca, anche questo ponte fu ricostruito eliminando il rivestimento medievale per riproporlo nel suo più arcaico aspetto “romano”.
Un focus, quello dei ponti, che ha modificato il corso evolutivo di luoghi e persone, tanto fondamentale da essere ancora oggi pericolosissimo elemento di contesa nei conflitti armati. Pensiamo, ad esempio, alla questione del Ponte di Crimea nell’attualissimo scontro tra Russia e Ucraina, una distruzione che rischia di provocare un’ulteriore escalation armata tra i due colossi dell’Est.
Una tragica storia che non vorremmo mai raccontare e che, tutti insieme, oggi più che mai, dobbiamo provare a spegnere grazie alla cultura, al dialogo, alla ragionevolezza e ad una più convinta voglia di pace.
Author Giuseppe Russo – Tutti i diritti riservati © ottobre 2022 Riproduzione vietata
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